Finzioni

Quando il cibo racconta la vita (La Sicilia - 18 febbraio 2013)

Trecento pagine per una tavola imbandita sapientemente
di Antonio La Monica

"Panza e Assenza" di Carlo Blangiforti è anche un ricettario. Raccoglie, cioè, quarantanove ricette suddivise tra Antipasti, Primi, Secondi, Contorni, Dolci. Un pranzo classico, quindi. Ma Panza e Assenza è anche ricettario, perché è soprattutto la raccolta di pensieri dell'autore sulla cucina siciliana in genere, e su quella della parte orientale dell'Isola in particolare. "Note a margine di ricette più o meno siciliane" è infatti il sottotitolo di questa opera di quasi trecento pagine che scorrono via velocemente e che, volendolo, permettono anche di organizzare una ottima tavola. Ma le preferenze dell'autore sono dichiaratamente rivolte a quelle che lui stesso chiama "banal food": il cibo di ogni giorno, quello che deve servire a combustibile per l'organismo. Però sempre con un tocco che distingue la cucina siciliana da quella di altri paesi, anche quando si tratta di fare un piatto di pasta o anche solo un panino mangiato per strada.
Ma non mancano anche ricette tipicamente iblee e di quelle che hanno fatto la storia e la tradizione, non solo culinaria, di questa parte di Sicilia, una su tutte: il tradizionale piatto pasquale, in dialetto i "turciniuna", fegato, polmone, cuore, cipolla, caciocavallo e prezzemolo il tutto dentro le interiora di agnello.

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Intervista a Carlo Blangiforti
di Antonio La Monica

Laureato in lingue e letterature straniere, informatico, cultore delle tradizioni locali siciliane, poeta, scrittore per alcune testate giornalistiche ed appassionato di cucina. Sono alcune delle definizioni utili per inquadrare Carlo Blangiforti.

Ma in quali di queste ti riconosci maggiormente e perché?
Questa è una domanda che costringe a prendere una posizione. Io mi sento uno scrittore, un poeta, uno che ama le parole, che riconosce nella parole una forza evocatrice e magica rara. A ben pensarci, però, anche il cibo ha questa capacità.
Come nasce l’idea di raccogliere nel volume “Panza e assenza” alcune ricette? Come le hai scelte fra le tante?
In quasi dieci anni di collaborazione alla rubrica di “gastronomia” del mensile online Operaincerta, ho raccolto numerose riflessioni attorno al cibo. Alcune molto interessanti, il desiderio era quello di renderle più gradevoli e agevoli alla lettura. Su proposta del Cral della Bapr, dopo un lavoro di radicale rielaborazione, le abbiamo pubblicate. Le ricette le ho scelte per il loro valore simbolico e identitario. Nulla come il cibo ci racconta le verità più profonde di un popolo e questo vale, ovviamente, anche per i siciliani.
Secondo alcuni filosofi siamo quello che mangiamo. Data la premessa, chi sono o possono essere i siciliani?
Noi siciliani, nel bene e nel male, siamo la nostra storia. Ogni popolo che ha messo piede sull’isola, ha lasciato qualcosa: una pietanza, un ingrediente, un procedimento di cottura. I siciliani, ricchi, fantasiosi, decisi come la loro cucina, sono uomini e donne che non dovrebbero mai dimenticare la strada che li ha portati ad esser quel che sono.
Nel corso della tua vita hai compiuto interessanti passi anche nel campo della poesia. Può esservene traccia anche in cucina?
La poesia come la cucina è fatta di un sapiente gioco di dedizione, alchimia e intuito. Un poeta non può non essere un appassionato cuoco.
In una terra di grandi tradizioni come la nostra ha comunque attecchito il fenomeno dei fast food american style. Rischiamo di perdere qualcosa in termini di identità, oltre che di gusto?
Il fenomeno in Sicilia è marginale, mentre all’estero è molto più diffuso. Altrove il fast-food non è legato solo alla “moda” ma soddisfa un bisogno reale: mangiare a prezzi contenuti. Qui da noi si trova di meglio ad ogni angolo di strada: bar, panifici, rosticcerie ecc. Il rischio per la cucina tradizionale e per l’identità siciliana, piuttosto, deriva dalla polarizzazione sociale. Chi ha pochi soldi tende a mangiare troppo e male, compra cibo di scarsa qualità. Chi ha una disponibilità economica maggiore si lascia andare a ricercatezze che hanno poco a che fare con le pietanze della cucina delle nostre nonne.
Il cucinare è un rito. Quali le condizioni perfette per farlo?
Bisogna cucinare con allegria, in compagnia: la passione e la felicità sono tra gli ingredienti più importanti.
Mangiare insieme rappresenta l’esaltazione del cuoco e del gusto?
Mangiare è un fatto sociale. Basti pensare all’importanza sociale, politica e religiosa dei banchetti. In questo senso è l’esaltazione della convivialità.
Cosa ti auguri colgano i lettori del tuo volume?
Fondamentalmente due cose: che non esiste cosa più mutevole della tradizione e che, come insegna Proust, una pietanza non è fatta solo di ingredienti, di savoir faire, di terroir, ma anche di suggestioni, di quel che evoca, di nostalgie, di memorie e di letture…

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