Scritture

Panza e assenza
Note a margine di quarantanove ricette più o meno siciliane
Carlo Blangiforti, Panza e assenza, CRAL-BAP Ragusa, 2012

Il titolo Panza e assenza prende spunto da un detto, un’espressione che indica quell’atteggiamento sfacciato di certi convitati che si presentano a casa dell’ospite con nient’altro che il loro appetito. A mani vuote. Panza e presenza, appunto.
Le genti del sud, i siciliani, come tutti i popoli poveri, sono genti condannate all’ospitalità. Accolgono con grande favore l’ospite e cercano di ingozzarlo con manicaretti deliziosi. Ma ci sono delle ritualità da rispettare: non si deve mangiare troppo, non ci si deve servire da soli, non si deve sputare per terra e, soprattutto, non si deve suonare alla porta a mani vuote. Se questo accade, l’ospite non più gradito, è un maleducato scroccone che puzza già dopo alcuni minuti. Questi sono rituali da conoscere per non incorrere in imbarazzanti equivoci.
La presenza diventa assenza, per assonanza e contrapposizione. Ma a quale assenza s’allude? L’assenza è tutto ciò che non sta in un piatto, non solo in un piatto. Una pietanza (bella questa parola che evoca speranza e pietà) non è fatta solo di ingredienti, di savoir faire, di tradizioni, di terroir, di cose che influiscono a grado zero sull’arte culinaria. È fatta anche d’assenza, cioè di tutto il resto. Quello che il piatto evoca, la nostalgia, la memoria, le letture, le visioni, le suggestioni, un po’ come la madeleine di Proust: «Et dès que j’eus reconnu le goût du morceau de madeleine trempé dans le tilleul que me donnait ma tante […], assitôt la veille maison grise sur la rue, où était sa chambre, vint comme un décor de théâtre[...]». Un piatto è capace di evocare cose profonde.
Panza e assenza vuole parlare degli assenti, delle cose assenti. E in realtà, i più smaliziati se ne accorgeranno, le ricette sono contingenti, una sorta di obolo necessario. Ho raccolto ricette che evocano la mia terra e i legami tra me e questa terra: la maggior parte sono piatti che appartengono alla tradizione culinaria iblea, altre a quella siciliana, ci sono ricette che sono new entry, altri sono piatti che non c’entrano nulla con la nostra derelitta isola, ma che hanno attinenza, contiguità e, a vario titolo, affinità con la sicilianitudine... La tradizione d’altronde è la cosa più lontana che esista dalla conservazione, la tradizione si costruisce piano piano, procede per accumulazione.
Parlavo degli assenti e, a tale riguardo, mi si permetta una autocitazione:
«Oh, Pino, vieni a sederti nel posto dell’assente; la tavola, vedi, è imbandita a festa: sale e pane non si negano a nessuno!»
«Madre, non vedi la sottile alga che cola dalla narice? Sono morto!»
Penso, con una stretta al cuore, alle parole di chi ha perso un figlio, un padre, un fratello; alla cognizione del vuoto che nasce a tavola, quando il posto dell’assente si lascia intatto, etimologicamente intatto, e si attende un ritorno impossibile... In un’altra vita sarebbe stato possibile ricostruire, ospite inatteso di un bizzarro cuoco di nome Agriberto Gippaz, una mappa dei legami perduti, un’altra vita limpida, senza lacune, senza ottenebramenti. Ma di vita ce ne tocca una sola e ce la dobbiamo fare bastare.

Carlo Blangiforti, Panza e assenza, CRAL-BAP Ragusa, 2012

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Recensione
Trecento pagine per una tavola imbandita sapientemente
di Antonio La monica

"Panza e Assenza" di Carlo Blangiforti è anche un ricettario. Raccoglie, cioè, quarantanove ricette suddivise tra Antipasti, Primi, Secondi, Contorni, Dolci. Un pranzo classico, quindi. Ma Panza e Assenza è anche ricettario, perché è soprattutto la raccolta di pensieri dell'autore sulla cucina siciliana in genere, e su quella della parte orientale dell'Isola in particolare. "Note a margine di ricette più o meno siciliane" è infatti il sottotitolo di questa opera di quasi trecento pagine che scorrono via velocemente e che, volendolo, permettono anche di organizzare una ottima tavola. Ma le preferenze dell'autore sono dichiaratamente rivolte a quelle che lui stesso chiama "banal food": il cibo di ogni giorno, quello che deve servire a combustibile per l'organismo. Però sempre con un tocco che distingue la cucina siciliana da quella di altri paesi, anche quando si tratta di fare un piatto di pasta o anche solo un panino mangiato per strada.
Ma non mancano anche ricette tipicamente iblee e di quelle che hanno fatto la storia e la tradizione, non solo culinaria, di questa parte di Sicilia, una su tutte: il tradizionale piatto pasquale, in dialetto i "turciniuna", fegato, polmone, cuore, cipolla, caciocavallo e prezzemolo il tutto dentro le interiora di agnello.

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Intervista

Panza e Assenza
intervista a Carlo Blangiforti di Antonio La Monica
La Sicilia - Ed. Ragusa (18 febbraio 2013)

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Laureato in lingue e letterature straniere, informatico, cultore delle tradizioni locali siciliane, poeta, scrittore per alcune testate giornalistiche ed appassionato di cucina. Sono alcune delle definizioni utili per inquadrare Carlo Blangiforti.

Ma in quali di queste ti riconosci maggiormente e perché?
Questa è una domanda che costringe a prendere una posizione. Io mi sento uno scrittore, un poeta, uno che ama le parole, che riconosce nella parole una forza evocatrice e magica rara. A ben pensarci, però, anche il cibo ha questa capacità.
Come nasce l’idea di raccogliere nel volume “Panza e assenza” alcune ricette? Come le hai scelte fra le tante?
In quasi dieci anni di collaborazione alla rubrica di “gastronomia” del mensile online Operaincerta, ho raccolto numerose riflessioni attorno al cibo. Alcune molto interessanti, il desiderio era quello di renderle più gradevoli e agevoli alla lettura. Su proposta del Cral della Bapr, dopo un lavoro di radicale rielaborazione, le abbiamo pubblicate. Le ricette le ho scelte per il loro valore simbolico e identitario. Nulla come il cibo ci racconta le verità più profonde di un popolo e questo vale, ovviamente, anche per i siciliani.
Secondo alcuni filosofi siamo quello che mangiamo. Data la premessa, chi sono o possono essere i siciliani?
Noi siciliani, nel bene e nel male, siamo la nostra storia. Ogni popolo che ha messo piede sull’isola, ha lasciato qualcosa: una pietanza, un ingrediente, un procedimento di cottura. I siciliani, ricchi, fantasiosi, decisi come la loro cucina, sono uomini e donne che non dovrebbero mai dimenticare la strada che li ha portati ad esser quel che sono.
Nel corso della tua vita hai compiuto interessanti passi anche nel campo della poesia. Può esservene traccia anche in cucina?
La poesia come la cucina è fatta di un sapiente gioco di dedizione, alchimia e intuito. Un poeta non può non essere un appassionato cuoco.
In una terra di grandi tradizioni come la nostra ha comunque attecchito il fenomeno dei fast food american style. Rischiamo di perdere qualcosa in termini di identità, oltre che di gusto?
Il fenomeno in Sicilia è marginale, mentre all’estero è molto più diffuso. Altrove il fast-food non è legato solo alla “moda” ma soddisfa un bisogno reale: mangiare a prezzi contenuti. Qui da noi si trova di meglio ad ogni angolo di strada: bar, panifici, rosticcerie ecc. Il rischio per la cucina tradizionale e per l’identità siciliana, piuttosto, deriva dalla polarizzazione sociale. Chi ha pochi soldi tende a mangiare troppo e male, compra cibo di scarsa qualità. Chi ha una disponibilità economica maggiore si lascia andare a ricercatezze che hanno poco a che fare con le pietanze della cucina delle nostre nonne.
Il cucinare è un rito. Quali le condizioni perfette per farlo?
Bisogna cucinare con allegria, in compagnia: la passione e la felicità sono tra gli ingredienti più importanti.
Mangiare insieme rappresenta l’esaltazione del cuoco e del gusto?
Mangiare è un fatto sociale. Basti pensare all’importanza sociale, politica e religiosa dei banchetti. In questo senso è l’esaltazione della convivialità.
Cosa ti auguri colgano i lettori del tuo volume?
Fondamentalmente due cose: che non esiste cosa più mutevole della tradizione e che, come insegna Proust, una pietanza non è fatta solo di ingredienti, di savoir faire, di terroir, ma anche di suggestioni, di quel che evoca, di nostalgie, di memorie e di letture…

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Intervista

Panza e Assenza
intervista a Carlo Blangiforti di Loretta Dalola
http://www.vacanzesicilianeinfattoria.it (13 aprile 2015)

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Ho un libro tra le mani e mi trovo difronte al suo autore. Siciliano d’origine e con un sorriso spontaneo e simpatico che incoraggia l’immediato e amichevole tu e l’incalzare delle mie domande.

Chi è Carlo Blangiforti?
“È uno che spera di essere uno scrittore e… basta”, in realtà, lo aggiungo per dovere di cronaca, è laureato in lingue e letterature straniere, informatico, cultore delle tradizioni locali siciliane, poeta, scrittore per alcune testate giornalistiche ed appassionato di cucina.
Perché un libro con questo titolo?
“È nato come raccolta di ricette, ma in realtà, la ricetta è una scusa per parlare di altro. Il titolo prende spunto da un modo di dire locale, un’espressione che indica quell’atteggiamento sfacciato di certi convitati che si presentano a casa dell’ospite con nient’altro che il loro appetito. A mani vuote. Panza e presenza, appunto, ma assenza, in questo caso, ha un altro significato? “Giocando con le parole è nato il titolo reale. La panza, chiaramente è la gastronomia. Il libro ruota attorno al cibo e al rispetto per il cibo. L’assenza si riferisce a quello che nell’idea della cucina è assente, ovvero, le suggestioni, i riferimenti culturali, artistici e letterari in genere che un piatto può suscitare”.
Un piatto è capace di evocare cose profonde, sono parole tue, ma questo tuo libro non è solo un ricettario?
“Una delle funzioni principali di questo libro è stata quella di richiamare in vita le riflessioni sui cibi. Del resto, il cibo, è una parte molto importante del vivere dell’essere umano, ha al suo interno una potenza evocatrice incredibile. Facile fare allusione alla madeleine, di Proust e infatti, buona parte del libro parla di memoria”. 

La madeleine a cui fa riferimento Carlo è un biscotto dolce, francese, inzuppato nel té ha il potere, con il suo profumo e il suo sapore, di riportare all’infanzia la memoria dello scrittore. Questa sensazione e la necessità di trasformarla in scrittura, ha dato origine all’intero ciclo di ” “Alla ricerca del tempo perduto”, un romanzo dove le pagine legate al cibo sono nuemrose e molto intense. Il parallelismo dunque appare evidente, come Proust rievoca attraverso i sapori infantili, Blangiforti lo fa attraverso le ricette che evocano la sua terra e il legame con essa. Sono piatti che appartengono alla tradizione culinaria iblea, altre a quella siciliana, ci sono ricette che sono new entry, altre non c’entrano nulla con l’isola, ma hanno attinenza, continuità e, a vario titolo, affinità con la sicilianitudine…

Cos’è la sicilianitudine che tu descrivi attraverso le tue 49 ricette?
“È un concetto molto ampio, nel mio caso, con le ricette voglio restituire una “ibleitudine” che probabilmente è sfuggita a molti”.

I siciliani, come tutti i popoli poveri, sono genti condannate all’ospitalità. Accolgono con grande favore l’ospite e cercano di ingozzarlo con manicaretti deliziosi. Il cibo dunque rappresenta la forza di un territorio che ha saputo, da sempre, proporsi per la sua tempra innovativa, per la sua laboriosità e intraprendenza. Un popolo che ha intuito, in largo anticipo, di dover trasformare l’utilizzo degli ingredienti in “cultura del cibo” ed è proprio in questo concetto che risiede la vera differenza.

Parli di “banal food” ovvero il cibo di ogni giorno, quello che deve servire come combustibile per l’organismo, in cosa si distinguono i siciliani dagli altri popoli?
“Uso il termine “banal food” per distinguere il concetto di cibo delle grandi cucine internazionali, con chef pentastellati, che puntano solo alla qualità degli ingredienti. In realtà la cultura culinaria di un popolo si misura su altro. È il cibo quotidiano che emerge nelle case, nelle famiglie, tutti i giorni, con mamme, nonne e talvolta papà. Un piatto di pasta al pomodoro, in realtà esige una competenza superiore a quella che un grande cuoco esprime con piatti più eleborati. Ragusa ha la fortuna di trovarsi al centro di un territorio che offre una varietà di prodotti enorme, amplificata da suggestioni e scambi culturali, che si sono fusi tra loro, traducendosi in esperienze culinarie e questa è la vera forza della cucina siciliana. Io voglio mettere in evidenza la semplicità dei piatti con la loro alta capacità evocativa”.

Riflettendo su queste parole, percepisco l’amore che Carlo prova per tutto il “contorno” di un piatto, quello appunto che non si vede, che è assente dentro al piatto stesso, ma di cui è intriso il suo sapore o il suo odore, ovvero, il tempo, la dedizione, la psicologia, l’educazione, la cultura, l’ambiente, il desiderio, la creatività, la voglia e l’immaginazione che ognuno di noi, indipendentemente dalle capacità, mette nel preparare un piatto, anche il più semplice e che trasformano i cibi in un vero e proprio linguaggio.

È fuor di dubbio che il tuo intento di scrittore va oltre lo scrivere semplici ricette, qual è il messaggio nascosto dentro al buono delle pietanze?
“Credo o almeno è la mia interpretazione, che ogni pietanza, che tra l’altro, è una bellissima parola, ovvero, vivanda servita a tavola, evoca foneticamente il cibo, ma anche un senso di pietà e rimenbranza, insomma una vivanda è preparata con una grande quantità di diversi ingredienti e, con un senso più generale, un coarcervo di cose o persone. Da qui il rispetto per ciò che andiamo ad assaporare.”

A questo punto anch’io mi sento una grande cuoca e lo dico ad alta voce. Carlo sorride, e mi rassicura:

“Quando si usa il rispetto per gli ingredienti e si cucina un piatto con passione, altro elemento, assente nella lista degli ingredienti ma fondamentale, ogni persona che si avvicina ai fornelli diventa un grande cuoco. Il cuoco a cui mi riferisco io, probabilmente non avrà successo, non andrà in televisione, non farà molti soldi ma lascerà dietro di sè un valore emotivo unico e irripetibile”.
È riduttivo definire la tua fatica di scrittore il risultato di gusto, intelletto e panza? 
“Sono la stessa cosa – ride – si, alla fin fine, sono la stessa cosa”.
Ma non sono anche le chiavi del vivere bene?
“Eh si, dovrebbe essere così. Però riflettendo su certe ricette presenti nel libro, l’aspetto salubre si dimentica, piatti elaborati, tradizionali iblei, sono un concentrato di colesterolo, ma affascinanti per la loro ritualità, legati a eventi precisi e rari durante l’anno, e poi dobbiamo anche sfatare il mito dell’abbondanza meridionale, che è la conseguneza della modernità, perchè quando la nostra società ha raggiunto il benessere ha voluto sfoggiarlo, anche sulla tavola. In passato la quantità non era così abbondante e nemmeno la varietà. Per me parte del mio “vivere bene” è l’impegno e la sfida che ci metto per proteggere i sapori e le specificità alimentari che sono parte della nostra cultura”.

Ripongo il libro nella borsa, saluto, ringrazio Carlo e me ne vado. Ma non è il peso dell’opera nella borsa a farmi sentire diversa, sono i pensieri e le parole dette, che risuonano ancora fresche nelle mente e che mi confermano, ancora una volta, che questo popolo che non ha mai fatto parte di alcuna parte del mondo in epoca storica, che è stato occupato da nord a sud, oltraggiato e sfruttato, non è mai stato assimilato e riconosciuto nella sua unicità.

Giovanni Falcone scrisse: “Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio.”